1. Qual è la definizione di “economia circolare”?

Oggi gli esseri umani producono molto di più rispetto alle epoche passate, di conseguenza consumano di più e generano una quantità maggiore di rifiuti, oltre a contribuire con i propri comportamenti all’innalzamento del livello di inquinamento globale e al surriscaldamento del pianeta.

E questo avviene in un contesto in cui innovazione e nuove tecnologie stanno sperimentando un’accelerazione che non ha pari nella storia dell’umanità e che può trovare nell’economia circolare una vera e propria rivoluzione: un modo nuovo di pensare come disegnare i nostri prodotti e processi produttivi per eliminare gli impatti negativi sull’ambiente, favorire l’utilizzo circolare dei materiali e contribuire a rigenerare il sistema naturale stesso.

Con economia circolare, dunque, si intende un modello di produzione e consumo che implica condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento e riciclo dei materiali e prodotti esistenti il più a lungo possibile (fonte: Unione europea, 2016). 

In questo modo si estende il ciclo di vita dei prodotti, contribuendo a ridurre i rifiuti al minimo. Una volta che il prodotto ha terminato la sua funzione, i materiali di cui è composto vengono infatti reintrodotti, laddove possibile, nel ciclo economico. Così si possono continuamente riutilizzare all’interno del ciclo produttivo generando ulteriore valore.

I principi cardine dell’economia circolare contrastano con il tradizionale modello economico lineare, fondato sul tipico schema “estrarre, produrre, utilizzare e gettare”. Il modello economico tradizionale dipende dalla disponibilità di grandi quantità di materiali ed energia facilmente reperibili e a basso prezzo.

Nell’economia circolare hanno molta importanza le energie rinnovabili e la modularità e versatilità degli oggettiche possono e devono essere utilizzati in vari contesti per poter durare il più a lungo possibile.

Per comprendere l’importanza dell’economia circolare bisogna in primo luogo prendere in esame alcuni dei problemi più urgenti che l’umanità si trova a fronteggiare in questa epoca. Uno dei temi rilevanti è sicuramente il surriscaldamento dell’atmosfera causato dalla CO2 emessa principalmente per la produzione energetica, per l’attività industriale e per i trasporti. 

In particolare, secondo lo studio dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) dell’ottobre del 2018, abbiamo circa 12 anni per ridurre del 50% le emissioni di CO2 e circa 30 anni per eliminarle totalmente. In caso contrario, alcuni degli effetti che si stanno già manifestando si amplificheranno, con un impatto devastante di siccità, incendi ed alluvioni. 

Tali eventi, secondo Munich RE – Società specializzata nella copertura del valore di riassicurazioni, assicurazioni primari e rischi assicurativi -, hanno già causato danni per 280 miliardi di dollari nel 2021, di cui 46 nella UE (fonte: Il Sole “4 Ore del 05/05/2022).

Ragion per cui è assolutamente necessario implementare massivamente il modello di economi circolare, altrimenti non ci sarà un domani.

C’è poi da riflettere sui danni causati dall’inquinamento dell’aria. Secondo l’Agenzia Ambientale Europea (EEA)l’inquinamento atmosferico continua ad avere impatti significativi sulla salute della popolazione in Europa, in particolar modo per i cittadini delle aree urbane. Gli inquinanti sotto osservazione, in termini di rischio per la salute umana, sono le polveri sottili (Pm), il biossido di azoto (NO2) e l’ozono troposferico (O3). A pagarne le conseguenze, come sempre, sono i cittadini. Ogni anno sono infatti oltre 60mila le morti premature in Italia dovute all’inquinamento atmosferico. Questo determina un danno economico – stimato sulla base dei costi sanitari comprendenti le malattie, le cure, le visite, i giorni di lavoro persi – che solo in Italia oscilla tra 47 e 142 miliardi di euro all’anno (330 – 940 miliardi a livello europeo).

Non solo l’economia circolare protegge l’ambiente e permette di risparmiare sui costi di produzione e di gestione, ma è in grado anche di garantire risultati economici positivi per le imprese. Secondo il Parlamento europeo, grazie a misure come prevenzione dei rifiuti, ecodesing e riutilizzo dei materialile imprese europee otterrebbero un risparmio netto di 600 miliardi di euro, pari all’8% del fatturato annuo, riducendo allo stesso tempo le emissioni totali annue di gas clima-alteranti nella misura del 2-4%.

 

2. Qual è il ruolo dell’acido tartarico?

L’acido tartarico L(+)- è un acido organico molto versatile che trova impieghi in diversi settori: alimentare, farmaceutico, cosmetico, enologico, chimico ed in edilizia. Si presenta in forma cristallina bianca, inalterabile all’aria e molto solubile in acqua.

Viene estratto nel corso del processo di valorizzazione dei sottoprodotti della vinificazione (vinaccia di uva e feccia di vino) e, in questo caso, viene definito “naturale” e l’UE ne consente l’uso senza alcuna restrizione (nei limiti del “quantum satis”), identificandolo con la sigla E334 nella lista degli ingredienti alimentari.

L’industria italiana è leader nel mondo nella produzione e nella commercializzazione di acido tartarico naturale, con una quota di mercato del 67% circa. Questo perché la tecnologia sviluppata dall’industria nazionale è risultata nel tempo più performante e sviluppata rispetto a quella di altri Paesi ove insiste la viticultura, indispensabile punto di partenza poiché fornisce le materie prime necessarie.

Nell’ambito dei diversi prodotti a valore aggiunto ottenuti dai sottoprodotti della vinificazione, l’acido tartarico naturale rappresenta un componente essenziale poiché genera un fatturato, per le industrie nazionali, superiore ai 100 milioni di euro all’anno.

A partire dalla fine degli anni ‘90 ha fatto la sua comparsa nel mercato mondiale un acido tartarico prodotto in Cina, di origine sintetica ed ottenuto dalla fermentazione dell’anidride maleica ad opera di batteri GMO, la cui formula chimica è identica a quella del “naturale”, ma che ha un grande vantaggio per gli utilizzatori rispetto a quest’ultimo: viene proposto a prezzi molto più bassi.

Non a caso, a partire dal 2006, l’Unione Europea decise, a valle di una procedura di anti-dumping proposta dall’industria europea, di imporre un dazio specifico a questo prodotto in caso di importazione nell’Unione, con aliquote variabili tra produttore e produttore in relazione al livello di dumping praticato dagli stessi ed accertato dalla Commissione Europea.

Ma anche questa misura non si è rivelata sufficiente per tutelare l’industria del “naturale”: la concorrenza sleale praticata dall’industria cinese nel corso degli ultimi 20 anni ha portato alla cessazione dell’attività di molte imprese in Italia, Francia e Spagna.

Nel diniegato caso in cui le industrie europee “superstiti” si vedessero costrette a loro volta a dismettere la produzione di acido tartarico naturale, tutta la filiera viti-vinicola ne subirebbe le conseguenze, negative, in termini di minore valorizzazione dei propri sottoprodotti della vinificazione. Non solo, anche gli utilizzatori di acido tartarico nelle varie aree di impiego, trovandosi privati dalla concorrenza tra i due acidi, si vedrebbero costretti ad avere un solo possibile fornitore con le conseguenze facilmente immaginabili a livello di prezzo e di disponibilità. E, a mio parere, questa è proprio la strategia attuata dai produttori cinesi.

Cosa fare? Dal momento che nella UE sia nel settore pharma che in enologia è previsto ex-lege l’utilizzo del solo acido tartarico di origine naturale, ci siamo attivati nei confronti degli Enti competenti in sede unionale perché venga riconosciuto un codice di nomenclatura combinata (NC) differenziato tra “naturale” e “sintetico”. Questo perché oggi entrambi gli acidi sono riuniti sotto la medesima voce, che non ne consente quindi la corretta tracciabilità.

Non solo, oggi il mercato in generale è sempre più orientato alla ricerca di prodotti naturali e, per questo, è indispensabile fare conoscere agli utilizzatori le differenze insite nei due prodotti, sia in termini di sicurezza alimentare che di scelte consapevoli da parte dei consumatori. E questa azione di comunicazione deve essere fatta attraverso la nostra Associazione, che rappresenta una voce autorevole ed ascoltata, accettata come super partes e non interpretabile come partigiana come quella proposta delle singole imprese.

 

3. Qual è il suo “Niente è impossibile”?

“La nostra più grande debolezza sta nell’arrenderci. Il modo più sicuro per riuscire è sempre provarci ancora una volta”. Sono parole di Thomas Edison, ricordo di giovanili letture, che mi sono rimaste impresse nella memoria e che mi animano quotidianamente sia nella vita professionale che in quella privata. 

Direi che si possono in tradurre, in sintesi, in una unica parola: la perseveranza, intesa nel senso positivo della stessa. Ovvero, nell’applicazione di un metodo di pensiero che parte dalla corretta definizione degli obiettivi e della relativa migliore pianificazione per il raggiungimento degli stessi.

E’ molto importante sapere riflettere in modo approfondito sugli obiettivi, stabilire una azione solo dopo l’analisi, riconoscere i propri errori per evitare di ripeterli (Errare humanum est, perseverare autem diabolicum”), avere la capacità di ascoltare e di comprendere il pensiero degli altri e non scoraggiarsi mai. Questo è per me il “niente è impossibile”.